IL FIGLIO

Kala era in equilibrio e rischiava di cadere. Cadere e ricadere. Tutta la sua vita era una ricerca diequilibrio, peraltro mai trovato.Ma suo figlio lo aveva spinto controcorrente, contro il suo anelito a cadere e a farsi male. Suo figlio era bello, era puro, era semplice, era immediato, era scintillante, era duro, era curioso, era bramoso, era ossessivo, era infantile, era volatore. Suo figlio era l’essenza stessa, l’umanità stessa. Suo figlio era l’indescrivibile, l’incomprensibile a portata di mano. L’alieno adamantino, la montagna incantata, il lago silenzioso, il tramonto quieto. Suo figlio era l’inimmaginabile, la fonte di ogni
stupore e di ogni piacere, suo figlio era qualcosa che lui non aveva mai contemplato in tutta la sua esistenza, non era paragonabile a nulla che conoscesse.
Così, grazie a suo figlio, era caduto meno, si era meno ferito, aveva ferito meno.
Lui discendeva da un’antica famiglia indù: gente orgogliosa, dura, spietata, severa con i propri figli e con se stessa fino alla sofferenza. Niente dolcezza, niente comprensione, solo regole e doveri, e netto e ben radicato senso della casta, dell’esclusività della loro condizione. Lui era cresciuto ombroso, taciturno, vendicativo, con un senso di superiorità che a volte lo intimoriva.
Gli era stata data in moglie, a tempo debito, una fanciulla di nome Kalima, gaia e dolcissima, che lo aveva consolato ben presto, con la sua disponibilità ed arrendevolezza, della mancanza d’amore, della repressione di ogni desiderio o aspirazione personale. Infatti nella casta, o nella setta, l’individuo per definizione non contava “nulla”, “era nulla”.
Era nato un bambino di nome Kalù. Quando aveva visto, per la prima volta in vita sua, quella pelle fresca e palpitante, splendente come bronzo brunito, quella lingua e quella bocca vermiglia, che belavano come il più indifeso agnello delle lande himalayane, aveva capito di aver incontrato la divinità. Se l’era portato a spasso in un fagotto, prima sulle spalle, su e giù per le scocese e ripide montagne della sua infanzia, tra gli sterpi e i rovi profumati e pungenti. Gli aveva insegnato tutti gli odori che conosceva, tutti i sapori che conosceva, lo aveva reso spettatatore delle albe, dei tramonti, dei mezzogiorni aridi e assolati, lo aveva portato sui laghi, che riflettevano scaglie di assoluto.
Così, a poco a poco, il suo duro cuore inaridito si era liquefatto, era apparso il sorriso, era apparsa l’attenzione e la cura, e l’ansia genitrice aveva irrigato le sue membra gigantesche di uomo cresciuto ai piedi della montagna, rendendole fertili e rigogliose di forza. Era diventato fiero della sua cura per quel bambino.
E tra i pari della sua casta incuteva ora rispetto e paura, e tra le genti delle caste inferiori era apprezzato e amato, perché quando il suo piccolo giocava con tutti e sorrideva a tutti, lui lo imitava con orgoglio e si sentiva un dio felice e appagato.
Presto la sua gente e le sue usanze, per quanto care e vitali, non gli bastarono più, e volle cercare il diverso e l’esotico. Troppa era la voglia di imparare e di scoprire, quella stessa voglia che pulsava nel cuore di suo figlio.
Prese moglie e figlio e si mise in viaggio per il mondo intero.
Percorsero l’Asia, la brulla steppa, dove vivono i cosacchi impelliciati e ubriaconi; esplorarono sui dorsi dei cammelli le roventi spiagge dei deserti, dove il silenzio e il sole parlavano la lingua della divinità. Si persero nelle umide foreste dell’Africa Centrale, tra concerti di volatili e sibili di rettili;
rabbrividirono di fronte alle sterminate e accecanti plaghe candide della Groenlandia, galoparrono sui puledri selvatici, nei canyon affollati di echi del Nord America e delle pampas argentine, scambiandosi cibi e usanze con i pellirosse e i pueblos delle riserve e dei villaggi; visitarono le gentili e popolose capitali europee, così ricche di opere d’arte da parere scrigni di virtù e gioie donate all’umanità.
Ma la cosa che li affascinò di più, alla fine del loro viaggio, fu il Mar Mediterraneo. Lì, sulle coste scogliose e taglienti, a picco sul mare, rimasero in adorazione davanti ad antichi eremi scavati nella roccia, a misteriose presenze di creature alate, chiamate angeli nella cultura cristiana e islamica, a santuari arrampicati sulla roccia arsa e friabile, a tane fatte una pietra messa sull’altra, dove i pastori trascorrevano le notti e i giorni di un’arcaica transumanza.
Rimasero attoniti di fronte al frondoso tempio del Gargano, recinto sacro in cui volano i fauni sui loro zoccoli leggeri, in cui crescono funghi giganteschi che danno sazietà e allucinazioni, in cui frati elfi compiono incantesimi, risvegliando ogni anno la primavera. Scesi sul mare, Kalima si perse nei mercati colorati dagli iridescenti frutti del mare, e scoperse che le donne del mediterraneo non erano meno temibili e linguacciute delle donne indiane!
Kala con suo figlio aveva prima trascorso giorni e giorni a camminare sulle spiagge sabbiose rilucenti di quarziti, curioso di scoprire dove avessero fine. Poi, spossato e sconfitto, si era lasciato andare con suo figlio a gambe penzoloni sul modo di un porticciolo del Gargano, piccolissimo centro marinaro, e aveva tentato di contare i nodi di una rete di un pescatore, mentre questi la dipanava e la rammendava, ma si era rivelata un’impresa ardua quanto contare le stelle del cielo!
Allora aveva affittato una barca e se ne era andato a remi al largo, inseguendo lo scintillio del sole al tramonto, finché aveva raggiunto l’orizzonte, dove il sole si era nascosto di lì a poco. Suo figlio intanto si era messo a inventare poesie e filastrocche per descrivere le meraviglie che avevano conosciuto. E al termine del viaggio, era tornato a casa con lo zaino pieno di poemi, ornati di parole stupefacenti. Ed in particolare, uno lo aveva intitolato: Il Poema del Gargano. Kala, annuendo con la testa, aveva senz’altro approvato!

Alessandro Lunare

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