Premiati IV° ed. – Sezione Prosa

1° Classificato: Aura Lei – “PEPP U’ GNUR”

Pepp u’gnur è il primo di otto figli di una famiglia scombinata e pittoresca. In una terra di contadini ed artigiani e nuvole che si rincorrono in un cielo di azzurro terso.

Ossessionato dal paese suo che vuole sia come la testa dice. Si prende cura per una vita intera, appassionatamente, di tutta la sua gente, quella del centro storico e delle campagne sparse. Non ci dorme la notte quasi.

Fino a venticinque anni è pelle e ossa. In camicia e cravatta, nonostante l’indigenza della famiglia, di quasi tutte le famiglie di quei tempi, tranne alcune. La strada, che a tratti affiora sotto la nevicata straordinaria del ’56, la percorre a piedi da Fasano in Valle D’Itria, perché, in una lettera si dice, che il suo amore non lo vuole più. Ma è uno scherzo malvagio dei suoi amici di università.

Si sposa controvento, sfidando il veto assoluto del padre che non si presenta, insieme agli altri della parte sua, alla cerimonia nuziale. Un gesto grave. Difficile da perdonare. Una festa resa triste immotivatamente. Una tristezza che si trascina negli anni e accompagna incomprensioni.

Ma il suo amore ha un sorriso grande su una bocca bella. Pepp u’gnur da lei ha tre figli: una figlia, due maschi. Nessuno di loro lo eguaglia in energia, ostinazione. Passione.

E’ insegnante di Applicazioni Tecniche alla Scuola Media. Quel lavoro gli dà il pane. Ma è la politica che gli mette in circolo il sangue nelle vene. Glielo fa girare come a Maranello.

Il padre gli affida il testimone del sindacato. Non cambierà mai bandiera, anche in tempi in cui tanti l’han cambiata e, insieme ad essa, auto, case, mogli. Pepp u’gnur si occupa della sua gente.

Tante facce cotte al sole e gli occhi scuri. Artigiani preziosi, contadini sapienti, muratori certosini.

Quella campagna a fazzoletti di vigne e uliveti. Orti geometrici di pomodori rossi, zucchine, insalate, fagiolini, melanzane. Tutto senza acqua, con il nutrimento della terra rossa asciutta. Il calore del sole riflesso dalle pareti bianche abbacinanti, tinte a calce. Tutta una popolazione di analfabeti e semianalfabeti. Ma le parole ci sono lo stesso e sagge anche e vengono dalla terra, dalle pietre vive lavorate come gemme preziose che diventano ora tetti, ora camini, ora panche, ora muri divisori tra piccoli appezzamenti.

Pepp u’gnur c’è per loro in ogni momento della giornata. Ad ogni ora del mattino e della sera. Vorrebbe anche la notte. Cataste di pratiche cavillose che segue in ogni dettaglio per trovare soluzioni utili, come un segugio alla ricerca di un tartufo.

Aldo Moro fa spesso visita al paese. Circondato da tanti uomini in vestito scuro e accalcati intorno. La sua capigliatura folta e bianca spicca nelle foto che lo ritraggono in bianco e nero.

Pepp u’gnur! Pepp u’gnur ! –  osanna il popolo.

Pepp u’gnur diventa sindaco per due mandati. A causa di una crisi amministrativa in seguito alla caduta del governo nazionale, il secondo non lo porta a compimento, e se ne duole tanto che quasi ci si ammala.

Per sistemare tutte le strade delle contrade e prendere i soldi necessari, supera il terrore di volare e vola a Roma, con la moglie pure, così se casca l’aereo, muoiono tutte e due – lui pensa. Ogni marciapiede, ogni specchio stradale rotto è un cruccio personale. A casa sua può crollare tutto, ma il paese deve essere perfetto.

Non va in vacanza, rimane là a controllare e si sente responsabile di tutto ciò che accade o può accadere.

Giannin’ gli toglie il saluto all’improvviso. E come mai? Proprio lui. L’amico fraterno che l’aveva accolto a dormire nel pagliaio la notte prima delle nozze. Si, glielo ha tolto perché corre voce che in cambio di un favore Pepp u’ gnur ha ricevuto un’autorimessa. Ce ne vuole che tutto si chiarisca! Ma quale autorimessa?! E’ una menzogna, una maldicenza. Si sa, i contadini sono diffidenti e anche se Giannin’ si ricrede e poi fa pace, gli rimane quell’ombra di sospetto.

Ma come, Pepp u’gnur, che non ha mai preso neppure lo stipendio nei suoi due mandati da sindaco. Mai usato un’auto blu! Piuttosto ci ha rimesso.

Un giorno d’autunno giunge in paese un signore con una camicia alla russa, collettino e abbottonatura laterale. Un sorriso che ci può passare un treno. Un direttore d’orchestra d’origini baresi, ma trapiantato a Firenze. Si chiama Bruno. Seduto alla panchina in ferro di colore verde della casa di campagna, con lui organizza un festival musicale estivo. Senza un soldo. Gli artisti dormiranno all’Istituto Agrario Caramia e mangeranno al trullo, dove Gervi cucinerà per tutti, tra i complimenti anche dei più sofisticati. Anche di quel Franzoni, violinista della Scala, che alla fine della settimana musicale non vuole più tornare a Milano e va via piangendo. Tra i nomi giunti fino là, quelli di flautisti, batteristi, danzatrici, marionettisti. Gazzelloni, De Piscopo, Dorella, Colla. E altri ancora avanzano.

Pepp u’ gnur vive da onesto. Non ha automobili lussuose. Non ha automobili, in realtà, perché le poche utilitarie che ha acquistato – tutte marchio FIAT – le ha fatte diventare in breve tempo dei catorci. Non ha investimenti in immobili o depositi cospicui di denaro. Acquista abiti alle confezioni da un suo amico. Sempre lo stesso stile.

Lui vive di passione. La vita sua è lì in un luogo circoscritto, tutto tondo. Vita e morte, morte e vita. E a quanti funerali ha partecipato. Quante cerimonie e messe. Quanti primi e ultimi saluti.

Quali luoghi altri ha visitato? Veramente poca cosa. Il suo viaggio di nozze nel ’60: Roma, Firenze, Milano, Venezia, Trieste e poi le stesse città venticinque anni dopo. Pescara, anche. E’ lì che la figlia vive.

Ma la statale SS172, il tratto di strada tra Locorotondo e Bari, può farla ad occhi chiusi per quante volte l’ha percorsa. Chilometri e chilometri, sessanta chilometri all’andata e sessanta chilometri al ritorno per sessanta anni. Un nastro di problemi da risolvere.

Lungo le autostrade non si è mai avventurato. Troppo insicuro nella guida, troppo lento. Ma di incidenti non ne ha memoria nonostante.

Ora che il cuore l’ha un po’ tradito e non se la sente più di affrontare così di petto tante questioni altrui, a Pepp u’ gnur gli viene da sorridere mentre ripensa a quell’ultima sua sfida. Quando si è legato ad un albero della piazza comunale per protestare contro il sindaco di allora per i lavori che l’avrebbero trasformata, abbattendo tutti i lecci antichi e realizzando un parcheggio seminterrato ad uso pubblico, mai completato.

Pepp u’gnur si è legato, si è legato: il tamtam su facebook. L’ha detto e poi l’ha fatto veramente! Era il 2009 ed avevi settantaquattro anni.

Qualche giorno fa mi è giunta voce – perché io non c’ero – che per arrivare al pianerottolo della tua casa, al secondo piano di una palazzina, i figli maschi ti hanno preso in braccio e portato su come un bambino. Tutta quella forza, quell’energia, quel desiderio di lottare e di cambiare di una vita fatta, resi flebili dalla caducità della natura umana. Accolti in quattro braccia e mani e in salita.

Pepp u’gnur devi assecondarlo, adesso, il vento.

Lasciati accarezzare da quella famiglia che di te ricorda poche intimità. Poche esperienze condivise perché è Locorotondo che ti ha tenuto a sé per troppo tempo, come un’ossessione, uno stomaco mai sazio.

Dedica parole e sguardi a quel tuo amore dal sorriso grande su una bocca bella che non ti lascia mai e si prende di te cura come un angelo.

A noi, che da piccoli con te non giocammo, se non quella volta che ci sorprendesti in pieno, facendoci trovare, al risveglio del mattino, un presepe costruito sul piano rosso della credenza di cucina. Come facesti in così poco tempo? Ancora adesso non lo spiego.

E le reti stese sui campi della casa di villeggiatura di Cisternino, con Vincenzo e Rosalba per catturare i passaredd’r. Quelle sì che anche le ricordo e te giovane con tanti capelli neri in testa.

Mi hai mai preso in braccio e a cavalcioni, fingendo una galoppata in una prateria? No. Mi sembra, mai!

Ma, sempre in occasione di un Natale, trovai per me sotto l’albero, come regalo, un set completo di colori ad olio e qualche tela.

Su una, tu dipingesti una foresta di alti pini e una capanna indiana. E’ d’allora che mi piacciono gli indiani.

Pepp u’ gnur, adesso vieni qui. Voglio darti un bacio.

 

2° Classificato: Michele Gemma – MIRIAM, LA DANZA è LA MIA TERRA

Il sipario si chiude, per l’ultima volta. Il pubblico entusiasta applaude. Fischia. Grida di gioia e di soddisfazione. Il pensiero di Mariam corre veloce in Africa, nella parte orientale del Corno d’Africa: Eritrea.

È nata in un piccolo paesino che si affaccia sul Mar Rosso, un villaggio di nessuna importanza commerciale. Mariam non ricorda neanche il nome della cittadina che le ha dato i natali, è difficile da pronunciare e la madre, eritrea, fa di tutto per non andare sul discorso delle origini. Sono arrivate in Europa, in Italia, da 5 anni, quando Mariam aveva poco più di 10 mesi. Tra difficoltà e pericoli incalcolabili. Rischi di gran lunga minori rispetto a quelli che, mamma e figlia, avrebbero corso restando in Africa. «Anche la morte può essere diversa da Paese a Paese» ripete quotidianamente Selam.

Quando ripensa all’Eritrea, non può non vedere una terra impregnata della dittatura più crudele e odiosa del mondo: sono consentite esecuzioni sommarie ed extragiudiziarie, violenze di ogni genere in particolar modo con sfondo sessuale, lavori forzati e diritti umani basilari puntualmente violati. Il tutto tra l’indifferenza internazionale che considera anche quella dell’Eritrea una dittatura democratica o comunque amica.

Quella sera però i pensieri di Selam era completamente dedicati a sua figlia Mariam, aveva voluto si chiamasse così in segno di devozione alla Madonna e alle tradizioni del suo Paese. In Eritrea la partoriente viene saluta con “Inkuà Mariam anziatiky”, “la Madonna ti ha salvato auguri”.

Selam nonostante non potesse vedere la prima esibizione della figlia era felice. I piatti, gli scarti, i residui e gli avanzi di cibo lasciati dai clienti del ristornate dove lavora avevano, in quella sera, un odore diverso, anzi profumavano. Aveva appoggiato sul bordo lavandino, quello che utilizza per sciacquare i piatti prima di infilarli nella lavastoviglie, una bambolina. Una di quelle che, qualche tempo fa, venivano posizionate sopra il carillon e con note dolcissime girava su se stessa. I piatti sporchi e i rumori degli elettrodomestici non distoglievano lo sguardo di Selam dalla bambolina.

Aveva iniziato a lavorare da circa un’ora, immediatamente dopo aver accompagnato la sua bambina nel centralissimo cineteatro cittadino, erano circa le sette di sera. Prima di congedarsi, un abbraccio e una frase: «ricordati che sei una bimba fortunata, balla e divertiti per te stessa e per la tua terra». Argomenti difficili da far capire ad una bambina che, da lì a qualche mese, avrebbe dovuto iniziare la scuola elementare. Il sorriso della fanciulla e lo sguardo penetrante lasciavano intendere altro.

Era il primo grande obiettivo che Salem era riuscita a raggiungere per sua figlia.

Sin da piccolissima aveva mostrato una certa passione per la danza, la danza classica. A soli tre anni andava a sbirciare dietro la grande vetrata della scuola di danza a pochi passi da casa sua. Alle urla della madre per farla rientrare in casa lei rispondeva con goffi passi di ‘danza’ rubati con lo sguardo alle ballerine della scuola. Obiettivo, quello di frequentare una scuola di danza, scontato per tante bambine e famiglie dell’Occidente. Un vero e proprio traguardo per chi è scappato da violenza e morte.

All’ingresso del cineteatro era un pullulare di mamme, e qualche papà, in ansia per la esibizione dei figli: maschi o femmine. Selam ascoltava le tante frasi che venivano pronunciate: «speriamo li facciano ballare tutti lo stesso tempo», «non vorrei che l’acconciatura si afflosciasse proprio quanto si esibiranno» rifletteva ad alta voce una mamma di poco meno di 40 anni, «dobbiamo augurarci che lo spettacolo inizi in orario, i bambini potrebbero innervosirsi». Erano tutte qui le preoccupazioni. Selam non giudicava, non commentava, neanche con se stessa. Non avrebbe chiesto altro che poter vedere ballare sua figlia. La sua prima esibizione.

Dopo quasi tre ore sulla rappresentazione artistica cala l’ultimo sipario. Un tripudio per tutti. Lacrime di commozione, abbracci stretti, baci, ultime riprese con gli smartphone, ultimi selfie con i figli indosso i vestiti utilizzati per lo spettacolo e fiori. Tanti fiori, con i genitori tutti in fila per consegnare alle proprie figlie un bouquet.

Mariam era al suo posto. I piedi appoggiati sul borsone, le dita in bocca, sulla fronte ancora qualche goccia di sudore, il tutu appeso all’attaccapanni. Con lo sguardo basso, provava, riuscendoci, ad infilare i pantaloni e la maglia di cotone di color lilla. Girata di spalle spostava il borsone per cercare le scarpe. Tentava di prender tempo, di far trascorrere più minuti possibili, sperava in fondo al suo cuore di sentire la voce stanca di Selam.

Era quasi mezzanotte, lo spettacolo era finito il lavoro di Selam ancora no. Nessuno attendeva Mariam con un sorriso sulle labbra e un mazzo di fiori in mano.

Finita la musica, spente le luci, Mariam entrò in auto con alcuni responsabili della scuola per essere accompagnata a casa. Nel tragitto immaginava il rientro di Selam. Le avrebbe raccontato tutto: le emozioni, le gioie, i sorrisi, le urla, le musiche, i suoni, gli odori. Niente sulla tristezza di fine serata. Le avrebbe detto anche che ha ballato «per sua madre, per se stessa, per la sua terra e che era la bimba più felice del mondo».

Selam, il suo nome significa pace, aveva riordinato e lucidato la cucina del ristorante. Spenta l’ultima luce passava dal titolare per consegnare la buona notte. Non vedeva l’ora di rientrare a casa, stendersi di fianco alla sua prima ed unica ballerina che, quella sera, l’aveva fatta sognare, commuovere e piangere di gioia.

Su il sipario, lo spettacolo non era ancora finito.

 

3° Classificato: Simona Di Benedetto – NEVE A PRIMAVERA

Era un giorno nevoso di fine marzo con un cielo grigiastro ed una nebbiolina che lasciava intravvedere solo la sagoma delle cose. Il paesino sembrava essere avvolto in una tenda di chiffon e il silenzio era ancora più assordante. Marta era abituata al caos della città e desiderava un po’ di pace ma in quell’agglomerato di case la quiete era quasi esagerata e solo il passaggio degli sciatori arricchiva di colori e allegria le strade.

Si affacciò alla finestra e pensò che quella mattina era meglio rimanere in albergo a scrivere un po’ di cartoline visto che il giorno dopo sarebbero partiti. Chiamò Enrica per fare colazione insieme – sono già scesa e ho mangiato un po’ di muesli perché andiamo sulle piste dell’altro versante, magari il tempo è migliore di qua, vieni con noi?-

-No grazie, sciare deve essere un divertimento e con questo tempo sarà difficile divertirsi, ci vediamo nel pomeriggio-

Scese al seminterrato e consumò la colazione molto lentamente visto che non aveva il pulmino che l’aspettava. Iniziò con un succo, cereali e poi riempì la tazza di caffè bollente – ci vuole coraggio a chiamarlo caffè- pensò Marta mentre sorseggiava quella bevanda ibrida, ma il calore che diffondeva nel corpo era piacevole.

Tornò in camera e si immerse nella lettura dell’unico libro che aveva portato. La neve continuava a scendere imbiancando tutto e arricchendo il paesaggio di un aria surreale. In tardi mattinata scese nella hall per comprare delle cartoline e iniziò a scrivere. Fu distratta da alcune voci che provenivano dall’ingresso. Alzò lo sguardo e vide due sciatori che rientravano. Si tolsero sciarpe, cappelli e occhiali.  Marta notò che uno dei due aveva dei bellissimi occhi verdi ed una carnagione olivastra che tanto le ricordavano Kim. Era un giovane uomo sulla trentina. Alto e dai modi gentili. Parlava con la receptionist e Marta decise di vederlo da vicino. Si diresse verso di loro e chiese all’impiegata dei francobolli. Poi guardò il giovane e lui le sorrise – Siete stati a sciare?- le chiese contrastando la sua timidezza. -Si ma è quasi impossibile sciare con questo tempaccio, la neve si appiccica alle lenti degli occhiali e toglie la visibilità così abbiamo deciso di rientrare.. di dove sei?- E così inizio una conversazione di conoscenza. Marta era attratta molto da quel giovane. Scoprì che si chiamava Marco ed abitava a Roma. Lui parlava e lei le guardava gli occhi verde smeraldo e il sorriso dolcissimo. Si rammaricò di non averlo conosciuto prima.  Si congedarono e Marta rimase su quella poltrona, stordita dalla bellezza e dolcezza di Marco. Lo vide mentre si infilò nell’ascensore, lui le sorrise di nuovo.

Era come fosse entrato un raggio di luce in una stanza buia. Quella settimana bianca si stava trascinando nella tranquillità che a volte rasentava la noia. Gli amici che erano con lei si alzavano la mattina presto per andare a sciare e la sera andavano a dormire dopo cena. Marta era abituata ad uscire, ballare, incontrare gente. A trent’anni il sangue le scorreva veloce nelle vene e tra il lavoro, lo sport, gli amici era sempre in movimento. Aveva anche un ragazzo con cui uscire e condividere le sue passioni ma era rimasto in città.

Dopo una mezz’oretta tornarono Enrica e Claudio delusi dalla mancata sciata. –Che giornataccia, peccato. Visto che stasera è l’ultimo giorno delle nostre vacanze che ne dici di andare in discoteca?- Marta annuì anche se quella sera sarebbe rimasta volentieri in albergo nella speranza di rivedere Marco.

Lo cercava tra le persone che entravano ed uscivano dagli ascensori. Sperava di vedere di nuovo i suoi occhi e il suo sorriso ma attese invano.

Finita la cena in albergo si diressero verso l’unica discoteca del paese.

Mentre era seduta a chiacchierare e gustare un cuba libre vide arrivare un gruppo di circa una decina di persone. Riconobbe Marco tra loro e il cuore le balzò nel petto. Le si avvicinò, lui la salutò calorosamente. Il tempo e lo spazio persero confini. La musica, il drink, il suo sorriso la fecero entrare in una euforica leggerezza e quando lui le chiese di ballare non capì il limite tra sogno e realtà.  Era energia e luce e calore.

-Noi andiamo, se vuoi rimanere assicurati che qualcuno ti riaccompagni, l albergo è a circa 2 chilometri da qui- le disse Enrica-

-Tranquilla, la accompagniamo noi- replicò Marco.

Continuarono a ballare e ridere e guardarsi fino a notte tardi. Anche gli amici di Marco erano andati via e così decisero di tornare a piedi nonostante il freddo. La neve abbondante della mattinata aveva coperto campi, solchi e strade e non era facile trovare la direzione giusta. Per fortuna la luna quella notte era piena ed illuminava il paesaggio di un grigio argentato. Anche le stelle partecipavano alla gioia di Marta brillando nel cielo. La temperatura era di sicuro sotto lo zero ma l’emozione era talmente inebriante che aveva la sensazione di non essere più nel corpo o comunque non lo sentiva.

Quando Marco l’abbracciò e la baciò capì che la sua vita non sarebbe stata più la stessa. Le farfalle nello stomaco, la testa vuota, la sensazione di camminare sospesa a dieci centimetri dal suolo. Tutto percepiva ampliato nei sensi e capì la frase che aveva letto più volte “felicità sei solo un attimo”. Marta era felice in ogni atomo del suo corpo, della sua mente, della sua anima. Camminava sulla neve ghiacciata senza sentirla e sotto un cielo stellato che partecipava leopardiano alle sue emozioni.

Rientrarono in albergo che quasi albeggiava. Continuarono a baciarsi e accarezzarsi e i loro corpi si sfiorarono, si cercavano. Marta era una persona mentale ed era impaurita dalle emozioni che avevano preso il comando. Poi pensò al ragazzo che aveva in città e la mente lottò con i sensi. A volte vinceva l’una e a volte l’altra ed era come nuotare in un mare tempestoso.

Parlavano e si baciavano. Parole, sguardi, brividi, intrecci di mani, sussurri, risa, carezze.  Marta raccontò di Sergio che aveva lasciato in città e Marco della sua vita sentimentale, della sua fidanzata e che a settembre si sarebbero sposati.

Parlarono tenendosi le mani e decisero di salutarsi li, per non farsi ancora più male, per non danneggiare altre persone.

Marta capì che la felicità non può essere mai piena, che la gioia e il dolore si alternano nell’animo umano, a volte coesistendo e che forse l’amore non esiste e che c’è solo l’illusione. Si baciarono ancora. Marco prese un fiammifero e scrisse un numero su un foglietto -chiamami se puoi… se vuoi- ed uscì dalla stanza.

Era ormai giorno e Marta preparò le valigie, le caricò in macchina e fece colazione. Non parlava, aveva la vita e la morte nel cuore. Si mise sul sedile posteriore ed appoggiò la testa al finestrino. Il sonno e lo stordimento dei sensi le rallentavano i movimenti e le parole.

Non aveva mai creduto ai colpi di fulmine ma cos’era allora quello che in dodici ore le aveva sconvolto l’esistenza?

Rimase muta per tutto il viaggio ripercorrendo con la mente e con gli occhi il volto di Marco, il suo sorriso, le sue parole, i suoi abbracci, la sua voce, la sua pelle, il suo odore. Avrebbe voluto chiamarlo e dirgli che si era innamorata e che avrebbe lasciato Sergio e che avrebbero potuto riprovare quelle emozioni ma a settembre si sarebbe sposato e lei era stata solo una parentesi di una vacanza.

Lottava Marta tra la ragione ed il sentimento, tra il buonsenso e la passione e continuò a lottare per mesi. Lasciò Sergio e spesso prendeva il telefono in mano, componeva il numero di casa di Marco e poi riattaccava. Lui non aveva il suo numero e così la responsabilità era tutta sua. Lottava, viveva di ricordi, si innamorava ogni volta che chiudeva gli occhi e ricordava.

Pensava a come sarebbe stato il matrimonio, ai preparativi, alle bomboniere, agli invitati e alla possibilità che non era nei suoi pensieri che non la ricordava neppure.

Una sera di fine agosto decise di mandare all’aria tutti i suoi ideali e i suoi principi e con la scusa di fare gli auguri compose il numero. Quando sentì la sua voce ammutolì, poi con un filo di voce disse – ciao sono Marta, ti ricordi di me?-

-Solo ora mi chiami? Sono passati cinque mesi e non sapevo come rintracciarti. Al ritorno dalla vacanza ho mandato a monte il mio matrimonio perché ti pensavo sempre, mi eri entrata nel cuore e baciavo te mentre ero con lei…non sono riuscito a combatterti, a dimenticarti anche se ho lottato tanto, credimi proprio tanto, mi sono distrutto, ho fatto soffrire la mia famiglia e per chi?  Sapevo solo il tuo nome e la tua città. Ti ho odiato con tutte le mie forze…ho maledetto quella vacanza, quelle montagne, quella neve di primavera ma adesso prendi il primo treno e vieni da me.

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