Sezione Prosa – Vincitori III° Edizione

Elaborati vincitori della SEZIONE PROSA


1º Classificato
<<Sulla collina del vento si perpetua una violenza atavica, che pare eterna. Ancora e sempre le forme che assume non riparano, non corazzano; ancora e sempre la sopraffazione che nasce dall’idea del possesso vede nella cultura il suo nemico più pericoloso. La consegna dell’uomo all’uomo dell’oggetto gulnisa sembra cosa fatta, ineludibile eppure l’uomo maturo, diventato saggio in una notte, per aver dato ascolto alla coscienza, spezza la catena millenaria e gulnisa, senza copricapo bianco, partirà per una terra che è quella della dignità -riconosciuta-affermata-conquistata.
Stile lucido, capace di coinvolgere testa e cuore.>>
UN MATRIMONIO CHE SI RISPETTI
di Vera Meis
Ogni matrimonio che si rispetti inizia con il versamento di qualche lacrima. Questo ed altri proverbi della sua terra, il Kirghikistan, riecheggiavano confusi nella testa di Gulnisa il pomeriggio in cui, dopo la lezione della Schmidt, non era rientrata a casa.
Quel pomeriggio sua mamma l’aveva aspettata come sempre seduta davanti all’uscio e, non vedendola rientrare, aveva allertato suo padre e i suo fratelli. Tutti insieme avrebbero sicuramente preso a cercarla, allarmati.
Sulla collina del vento, questo l’antico nome del suo quartiere, suo padre batteva il ferro incandescente con un pesante martello da fabbro. Era uno dei pochi nomadi che aveva lasciato con tutta la famiglia la steppa e gli animali per sfuggire alla grettezza, per dare un futuro a quella moglie bella e dalla pelle ambrata, che pure aveva rubato appena quattordicenne alla sua famiglia d’origine. Erano altri tempi, pensava a volte l’uomo, cercando forse di perdonare a se stesso il rapimento di sua moglie. Come se il tempo non fosse passato, il fabbro ricordava lo sguardo spaurito della moglie, quasi una bambina, mentre lui e un suo cugino la caricavano su un cavallo e fuggivano via, su per la montagna brulla.
La lunga gonna azzurra che le aveva cucito la nonna copriva a mala pena il ginocchio destro di Gulnisa, doveva essere bello sbucciato a giudicare da come le bruciava la pelle rimasta attaccata alle ruvide calze blu.
Devo ancora preparare il glossario per la Schmidt, pensava, o non supererò mai il suo esame! Il tedesco era una lingua che l’aveva sempre affascinata. Quando una parola non descriveva con chiarezza un concetto, i tedeschi gliene aggiugevano un’altra, legandola con una esse a quella di prima e tutto aveva di nuovo senso. Nella sua cultura, invece, non c’era spazio per nessuna esse e le cose infatti, troppo spesso per lei, non avevano senso.
Raffiche d’aria furiosa scuotevano con forza gli alberi fuori dal garage in cui era rinchiusa. Gulnisa poteva sentirne gli ululati tra i rami pesanti. Quella moltitudine di foglie sarebbe presto caduta ricoprendo col suo triste manto la città. 
L’odore pungente della muffa le infastidiva le narici e le mani, indolenzite, avevano iniziato a raggelarsi; se non avesse opposto tanta resistenza, pensava, forse gliele avrebbero lasciate libere. Sarebbe potuta scappare! Si pentiva della veemenza e del coraggio che le aveva conferito l’adrenalina del momento.
Gli occhi a mandorla, chiari, alternavano sotto la benda di panno scuro aloni di luce verde fluorescente e porpora, per poi ridare spazio al buio angusto della retrocamera del suo occhio oppresso. Era un susseguirsi angoscioso di macchie luminose. Da bambina, quando con la febbre era costretta a letto, fissava per ore il soffitto e quel susseguirsi tormentoso di luci, come allora, le faceva compagnia nella solitudine della prigionia.
Nella vecchia bottega, il martello da fabbro, ancora caldo per i colpi sferzati, era stato lanciato sul cemento tirato liscio a mo’ di pavimento. Un’aria gelida era entrata a spazzar via con forza i trucioli di ferro. La madre di Gulnisa aveva lasciato la porta spalancata e, sgomenta, aveva annunciato la scomparsa di sua figlia.
Il fabbro l’aveva ascoltata, poi, quasi immediatamente, aveva preso a correre deciso verso casa. Gli aveva portato il fucile la moglie, ma non aveva trovato le cartucce rosse, né quelle verdi. Lui le teneva ben nascoste, ma ora non contava che fosse una premura per evitare sciagure domestiche: Gulnisa era sparita.
Le raffiche non smettevano di tormentargli il risvolto della giacca, gli spettinavano con violenza i capelli ed anche la barba, ancora nera, era spartita in due. Non poteva macchiarsi due volte dello stesso crimine. Il cuore, nella gola, pulsava forte e se non fosse stato per il fatto che non gli era mai capitato, avrebbe pensato che era sul punto di svenire.
Come uno spaventapasseri maltrattato dalle correnti e dai corvi neri di un passato non tanto remoto, corse a più non posso verso casa.
Ad attenderlo, un messaggero:
– È a casa mia. Stanotte resta da noi. Ho bisogno solo del suo consenso, a Gulnisa farà piacere.
Lui Juri l’aveva sgridato più volte da bambino. Nessuno vuole avere bambini intorno quando si lavora il ferro rovente. Gli piaceva fare il suo lavoro da solo, era fatto così. – Va’ via, torna a casa! gli urlava dietro- Moccioso! Dirò a tua madre di darti così tante botte che non ti riconoscerà più nessuno!
– Chissà perché proprio mia figlia, il malnato, il bastardo!- farfugliava, ora avvilito, il padre di Gulnisa. L’aria fredda continuava a sferzargli le mani, il volto, i capelli. Era diventata insopportabile.
Se sua moglie gli avesse portato le cartucce, l’avrebbe sicuramente ammazzato.
– Avete tempo fino a domani mattina. Verrò qui con mia madre e mia nonna. Dica a sua moglie di preparare il copricapo bianco per il matrimonio.
Il malnato pronunciò le parole come un bambino il giorno della recita, nei suo occhi solo la sicurezza di avere tutto il diritto di perpetrare quella barbarie in nome dell’onore di Gulnisa.
Intanto la ragazza aspettava, al buio, che tornassero da lei. Perché le era toccata quella disgrazia? Perchè avevano scelto proprio lei? Perché le bruciava così tanto il ginocchio?
Presto Juri sarebbe arrivato e l’avrebbe portata a casa sua. Domani l’avrebbe sposata. Era così che funzionava.
Decise di non opporre resistenza. Non voleva morire. Questi pensieri, a tratti, la aiutavano a farsi forza, ma la paura della violenza era tale che, da quando l’avevano strattonata a forza in quell’auto, non aveva smesso di tremare.
Gulnisa pensava disperata alla barbarie, alla tradizione, all’onore.
Una drammatica lotta si era intanto consumata nel petto del fabbro e, mentre sua moglie sulla grande panca della cucina era china sul copricapo nuziale di Gulnisa, lui si alzò di scatto facendo cadere la pesante sedia di legno su cui era seduto. Con gli occhi sbarrati, il volto contratto, si piegò su di lei e le strappò, con violenza, dalle mani tremanti, il fazzoletto bianco che portava ancora le macchie dell’antico crimine.
Correndo verso la finestra, la aprì con furia e, dopo averlo squarciato con le pesanti dita, lo lanciò fuori come se avesse tra le mani una barra di ferro cocente della sua bottega.
Il vento della vergogna lo spinse con forza verso l’oscurità, giù per la collina.
Gulnisa non sarebbe rimasta nella casa di quel malnato.
Afferrò sua moglie per l’avanbraccio e le ordinò di smettere di piangere.
-Gulnisa parte per Francoforte con la signora Schmidt.
 Domani andiamo a riprendercela.
2º Classificato
PASSAGGIO A EST
di Amedeo Trezza
<< Il racconto si snoda attraverso un filo, agitato dai venti, che ha ai due capi vita e radici, incarnate dal rito antico, ciclicamente eterno, della transumanza. l’autore, ancora una volta spettatore empatico, è pronto a riconoscersi e a stringere con l’essenza archetipica della terra e del viaggio al suo interno un patto che travalica i confini dell’essere e viene consegnato nelle mani e nel cuore, appena formati, della discendenza. Ancora radici, espresse in uno stile essenziale ed evocativo al contempo>>
E’ accaduto anche quest’anno. I nostri cani per primi hanno avvertito in lontananza il tremore della terra e dell’aria, come accade pei terremoti di notte. E hanno cominciato ad abbaiare. Poi, infine, l’uomo.
Apro la finestra della camera da letto e sento subito un rumore indistinto ai miei orecchi ancora assonnati. Proviene dalla pineta, in lontananza, sembrano immense acque gorgoglianti tra pietre. All’inizio credo sia vento tra gli alberi fitti ma dopo qualche istante capisco che di altro vento si tratta, sono loro, ancora una volta. Centinaia di bovini che con le loro corna, il loro respiro di larghe narici e zoccoli sulla strada, portano i grandi campanacci della transumanza sotto le stelle.
Per avere la conferma, ancora col sonno sulle palpebre, cerco e subito intravedo i bagliori dei lampeggianti delle jeep dei pastori che si mescolano agli echi dei potenti muggiti della terra. Sono tornate, come ad ogni inizio di estate, le vacche si spostano. È il vento delle migrazioni. Dal Cilento alla Basilicata, dal Monte Bulgherìa  al Sirìno, muggiscono anch’essi. E insieme migrano le speranze e i ricordi di chi vive con gli animali, degli animali e per gli animali. Anime bovare umili ma non dimesse che senza retorica seguono le stagioni e disegnano in silenzio, nei secoli, il nostro paesaggio, restituendoci i loro prodotti.
Questa enorme massa animale segna il tempo che scorre con i suoi passaggi, è un segnavia dei tempi lunghi e adesso scandisce queste mie ore notturne con l’incedere cadenzato dei suoi arti inferiori a cui fa il pari il batacchio nel campanaccio. Una pagana litania ritmica, sempre più profonda che muove i pensieri  al modo bovino, con lentezza e perseveranza ancestrale.
“Non preoccuparti” – dice l’antica madre podolica che affonda le zampe nella eterna madre terra – “io mi nutro di terremoti vegetali e sono paziente come la persuasione.  Le mie corna in avanti e poi curve in su fino alle stelle ti ripareranno dai fulmini delle veloci parole insulse degli uomini dalla memoria breve. I miei occhi profondi scacciano i demoni antropomorfi e vegliano su di voi nelle vostre case. Cammino nella notte, nelle stelle. La luna gira lu munne e vuje durmite. Noi stiamo arrivando. E stiamo passando. Ci rivedrai ancora”.
E così la profondità emerge e quello che prima era un suono immenso nella notte tellurica ora diventa distinto alternarsi e sovrapporsi di campanacci, casuale eppur armonioso. Intanto gialli lampeggianti e grosse ruote precedono e seguono gli zoccoli che adesso nella tenue luce della notte portano avanti i corpi marmorei dei bovi. Solo il fugace bagliore di una pila, ad un tratto ,mi rivela la presenza del massaro che pur segue a piedi al centro della mandria, come a farsene proteggere. Ormai l’ultimo lampeggiante attraversa la strada e torna il buio vegetale di fronte a me, ancora in piedi alla finestra, mentre alle mie spalle il potente fragore continua man mano che l’incedere sonoro si allontana e torna indistinto, come muggito della terra nella notte. Sono tornate, e noi non siamo più soli.
Chiudo la finestra, mi stendo sul letto, mi riaddormento in compagnia di mia moglie e mio figlio che è nato da poche settimane. Immagino gioire proprio lui un giorno grande massaro ed io al suo fianco. E così, in questa immagine, i pesanti passi bovini mi diventano in sogno leggera brezza di vento, si trasfigurano in infinite possibilità, sempre uguali nelle stagioni che si ripetono e pur sempre diverse, in eterno divenire, attraverso le generazioni. Ed è quasi mattina.
3º Classificato
<<Il vento, forza che si insinua nelle pieghe della coscienza, che trasforma, anzi stravolge vite chiuse, sbarrate, asfittiche, che muta pregiudizi e stereotipi, che migliora il tempo vuoto, lo spazio assente dell’uomo che ha abdicato alla propria missione, che vivifica un’umanità perennemente alla ricerca della propria essenza.
Tono avvincente e stile pulito impreziosiscono la narrazione.>>
                  
PORTATI DAL VENTO
di Emilia Stefania
C’era una volta, tanto tempo fa, un’isola in mezzo all’oceano dove gli abitanti vivevano in bianche case, separate le une dalle altre da alti steccati. Sembrava che l’isola, il suo arredo e l’atipica altissima foresta di pioppi, che regnava sovrana, al centro di questo luogo, fosse lo specchio dell’anima dell’ isola stessa, che pareva  calata  da un pianeta avveniristico  o emersa dagli abissi.                                                                         
Gli abitanti di questo luogo vivevano nel completo benessere e possedevano un surplus di cose per condurre una vita più che agiata. Tutto era perfetto, a cominciare dai  giardini delle case, dove però c’era qualcosa di anomalo che faceva riflettere su chi fossero gli abitanti. Ciò che incuriosiva era la caratteristica  degli alberi, delle piante, della stessa erba e dei fiori che avevano in comune qualcosa di strano, erano alti e   protesi verso il cielo, come se volessero  raggiungere la luce e sottrarsi all’ombra creata dagli alti steccati. Anche le persone , e soprattutto i bambini, erano alti con silhouette sottili. Anch’essi sembravano  protesi verso l’alto per la stessa ragione. I bambini erano eccessivamente  educati e  discreti e mai invadenti tanto da evitare persino di salutare i vicini per non disturbarli. Ma questo comportamento eccessivo isolava gli abitanti che pertanto erano troppo concentrati su se stessi e si occupavano solo delle loro faccende personali: della propria casa, del  proprio spazio ben recintato e protetto da sguardi indiscreti.                    
Gli abitanti  stavano anche attenti che nessuna pianta o albero e nessun bambino o animale potesse  invadere lo spazio altrui e soprattutto  che restassero nello steccato senza invadere né essere invasi.   Sull’isola la comunicazione era a livello zero e così pure le relazioni tra gli abitanti. Tutto era in ordine, preciso, separato, steccato, imbiancato ma si respirava tanta solitudine ed anche un po’ di tristezza.             
La vita scorreva nell’ignavia più totale poiché agli abitanti mancava l’energia vitale che scaturisce dall’osmosi di sentimenti amorevoli quali l’amicizia, la fratellanza, l’altruismo.  In quelle bianche case tutto funzionava alla perfezione: gli elettrodomestici erano silenziosi, così pure le cerniere delle porte, dei cancelli e i binari delle tende da sole.  Le abitazioni erano arredate con cura, in uno stile minimalista, e i colori  dominanti erano  il bianco e il beige. Qualche nota di diversità, in tutto quel biancore, era data dalle piccole piantine grasse in gomma, di colore verde, appoggiate sulle bianche mensole dove neanche la polvere osava posarsi per paura di disturbare. Tutto era  curato e perfetto come le tende, color crème, che  non permettevano a nessuno  di guardar fuori dalle abitazioni , né di sbirciarvi dentro. Esse  scorrevano su silenziosi binari e in caso di vento, che sull’isola era frequente, (e forse l’unico elemento di disturbo e di cambiamento), non si muovevano poiché  le case erano dotate di robusti infissi in alluminio, con doppi vetri che non facevano entrare  nessuno spiffero  a creare scompiglio e disagio.  All’interno delle case l’illuminazione era data da lampade che  emanavano  luce che non creava  un’atmosfera calda e accogliente di un’abitazione  ma quella fredda e asettica di un ospedale di notte  e tutto intorno sembrava  sterilizzato e freddo.  Gli abitanti di queste case  non erano mai  rilassati, come, di solito, si sta a casa  propria, ma erano rigidi, tristi, silenziosi, discreti, ingessati e come pervasi dal rigore della morte.  Un giorno il signor X, che occupava una delle più belle case dell’isola, guardando con il cannocchiale attraverso i vetri delle finestre chiuse, intravide in lontananza, in alto mare,  un’ imbarcazione sbatacchiata dalle grandi onde dell’oceano, generate dal forte  vento di libeccio che soffiava impetuoso, sentì sul suo corpo un brivido alla sola idea dello scompiglio che poteva creare quel guerriero impenitente, come lui  immaginava fosse il vento di  libeccio.
Era preoccupato più per il disordine che quel vento avrebbe potuto creare sull’isola che per le persone che potevano trovarsi su quell’imbarcazione; d’altronde  non era un suo problema se gente sciocca e imprevidente si era avventurata con quel tempo per andare ad invadere la privacy altrui.                                
Si trattava sicuramente di sprovveduti, ignoranti, che non sapevano ascoltare le previsioni meteorologiche. Tanto peggio per loro! Il signor X si sedette sul suo divano in pelle bianca, si coprì con un plaid color crème, che faceva pendant con le tende, e si addormentò dimenticando quello che aveva appena visto.                    
Il suo volto illuminato dalla lampada, che emanava una luce fredda, come tutto il resto in quella casa, era esangue come quello di un morto.  Egli si era subito addormentato, per niente turbato da ciò che aveva visto, poiché non si lasciava mai coinvolgere dai sentimenti essendo un tipo razionale, controllato e soprattutto previdente tanto da  sostenere  che niente l’avrebbe potuto cogliere  di sorpresa. Questo comportamento lo applicava anche in famiglia, con i suoi figli e con sua moglie, la signora Y che passava quasi tutte le giornate a letto nella stanza attigua alla sua. Quella sera la consorte, era andata a letto presto e tentava di dormire nel suo letto rigorosamente rigido, per lenire il suo mal di schiena e quel gran mal di testa che le era stato causato sicuramente dallo spiffero che l’aveva colpita, quando, sbadatamente, il domestico Ugo aveva lasciato aperta la finestra, a suo dire, per rinnovare l’aria.                                        
Tutto nella casa era in ordine, sembrava non fosse abitata. Ma ad un certo punto il sonno del signor X fu interrotto da un fragore, come se qualcuno avesse lanciato contro il robusto steccato del recinto un pesante mobile che cadendo si era rotto in mille pezzi. Aprì gli occhi e non rendendosi conto se stesse sognando o invece fosse la realtà, istintivamente si alzò dal suo divano, si avvicinò alla finestra, prese il cannocchiale e guardò in lontananza verso il mare che era ancora più infuriato ma, dell’imbarcazione che aveva visto  prima, nessun segno. Si rassicurò pensando che il mare l’avesse inghiottita dando ai suoi marinai la giusta punizione per la loro imprudenza. Per calmare la sua piccola ansia si abbracciò da solo stringendosi nel suo plaid color crème. Ancora non si era del tutto ripreso dallo choc creatogli dal rumore precedente che subito sentì un gran baccano ed altri rumori che provenivano dal giardino. Si alzò, andò verso la finestra, guardò attraverso lo spioncino della sua porta d’ingresso e con grande sorpresa vide che una imbarcazione, era stata scaraventata nel suo impeccabile giardino infrangendo lo steccato e distruggendo le aiuole. Rimase bloccato e quasi impietrito e, ripensando al vento come ad un guerriero impenitente, fu indispettito dall’ invadenza di costui che aveva osato oltraggiare la sua casa.  Non si era ancora ripreso dallo choc precedente quando, sgomento, vide uscire due naufraghi fradici, sporchi, arruffati e disperati da sotto ai legni spezzati della grande imbarcazione. Si avvolse completamente con il suo plaid e mise la testa fuori dall’uscio e, dalle sagome illuminate dai lampioni, capì che si trattava di un uomo e di una donna, (forse gli unici superstiti di un naufragio più grosso) e, guardandoli  più attentamente, nel bagliore dei lampioni, scoprì che erano persone di colore e parlavano una lingua a lui sconosciuta. Dai gesti e dall’espressione dei loro volti comprese che lo stavano implorando di aiutarli e di farli entrare. Il signor X ebbe un momento di panico pensando a come avrebbero potuto ridurre la sua perfetta casa, ma non poté dire di no anche perché la ragazza, che era molto bella, aveva degli occhi imploranti che gli procurarono una lieve emozione della coscienza e provò qualcosa di strano che non aveva mai conosciuto prima, come un sentimento di tenerezza e di compassione. Per quanto i suoi pensieri fossero lenti, ipotizzò che, per salvare capra e cavoli, avrebbe potuto ospitare la ragazza in cantina mentre il giovane avrebbe dovuto cercare da un’altra parte. I due sconosciuti ripetevano una strana e incomprensibile parola: ubuntu. La comunicazione era impossibile poiché i due giovani non parlavano la lingua inglese che il signor X invece parlava molto bene, grazie ai suoi studi fatti in un college svizzero per soli  ricchi.  Tuttavia non riuscì a farsi capire e dovette far attrezzare, suo malgrado, un giaciglio per due nella sua spaziosa “cave”, dotata di toilette e  angolo cottura, che egli un po’ per hobby e un po’ per impegnare il suo tempo, prima della noia invernale, aveva fatto realizzare l’estate precedente.  Vi fece portare anche dei viveri e i due, dopo aver mangiato qualcosa, si addormentarono profondamente abbracciati, dicendo, nel dormiveglia, ancora una volta, al domestico che li guardava incuriosito, ubuntu. La mattina dopo il signor X si trovò di fronte ai due giovani che, rifocillati dal cibo e dal sonno e da una    rigenerante doccia, erano ancora più belli di come gli erano sembrati la sera prima.                                         
Il giovane assomigliava, per le sue fattezze, a un dio greco ma con la carnagione scura, mentre la ragazza, dalla vellutata carnagione ambrata che, illuminata dai raggi del sole, la rendevano ancora più bella  e solare, ricordava un’amazzone.  I due giovani, appena videro il padrone di casa, si inchinarono e gli sorrisero mostrando denti bianchissimi che al signor X apparvero come perle preziose sulla carnosa   e rosea bocca della ragazza che continuava a sorridere, manifestando, con un profondo inchino,  un senso di gratitudine per quel bianco signore che le sembrava un angelo. Tra gli inchini e i sorrisi, pur non parlando la stessa lingua, il signor X comprese che il giovane si chiamava Omar, mentre il nome della ragazza era Amina. Chi fosse Ubuntu però il signor X non l’aveva ancora capito per cui cercò, sul suo cellulare  di ultima generazione, via internet, e , senza volerlo, entrò in   un mondo in cui,  fino a quel momento, non era mai stato, ma che gli si impose, subito  dopo aver scritto il nome Omar, e aver sfiorato, con un impercettibile gesto, il  touch  screen del suo cellulare. Omar era un nome proprio della lingua araba e il suo significato corrispondeva a: “colui che parla”; Amina, invece, significava: “colei che dice la verità”. Ubuntu, ubuntu…. ah, ubuntu non era né un nome di persona né di animale, per fortuna, pensò il signor X.     Tuttavia continuò ad indagare sul significato della parola e scoprì qualcosa di cui era completamente ignaro fino a quel momento, cioè che altri, nel mondo, la pensavano in modo completamente diverso da lui e che il suo concetto di rispetto era in contrasto con quello degli altri. Il signor X scoprì da Wikipedia che Ubuntu è una ideologia dell’Africa sub-sahariana e un’etica comportamentale che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone. In particolare è un’espressione della “lingua bantu” che indica “benevolenza verso il prossimo”. E’ una regola di vita, basata sulla compassione e il rispetto dell’altro. Infatti in lingua bantu, si è soliti dire : “Umuntu  ngumuntu ngabantu ” che significa “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo. La filosofia Ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta verso l’umanità intera, un desiderio di pace che nasce dall’amore universale che accoglie, abbraccia e da valore ad ogni cosa. Il signor X era come stordito da tutta questa diversità di visione delle cose della vita. Per un attimo, ebbe la sensazione, quasi fisica, che il terreno  si sgretolasse sotto ai suoi piedi. Guardò in basso, come per controllare ciò che stava succedendo, ma si accorse che era stata solo una sensazione causata dallo stress. Le scoperte fatte  mettevano in discussione tutto ciò che aveva pensato fino a quel momento e, suo malgrado, avrebbero creato un cataclisma  nella sua vita. Incuriosito ormai, anche se un po’ destabilizzato, continuò a navigare in internet  e apprese molte altre cose. Il povero signor X aveva vissuto troppe emozioni in poco tempo e, per questo, era stanco, ma riuscì lo stesso a pensare che a causa dei loro nomi essi parlavano per dire la verità. Ma la loro verità era “ ubuntu” cioè  esattamente l’opposto di ciò che pensava lui. Era angosciato all’idea di dover spiegare tutto a sua moglie, che, ostinata com’era, non avrebbe certamente capito. Nella sua mente si stava insediando un  dubbio sulla correttezza del proprio modo di intendere la vita e nel  suo cuore si stava aprendo un piccolo varco di disponibilità verso  un cambiamento che sentiva di dover fare. Egli desiderava raccontare ai suoi vicini  la piacevole sensazione che si prova di fronte alla gratitudine traboccante di chi tu hai aiutato; quanto è dolce il sorriso di chi hai accolto e rifocillato; e che  il sole non dà  solo calore ma anche colore, poiché illumina tutto e accarezza le forme sinuose di una donna, e la rende più bella, femminile, accogliente come una madre, come la madre terra in cui germoglia la vita.
Mentre il  signor X pensava a tutto ciò, i suoi occhi si posarono con tenerezza su una piccola  piantina che faceva capolino da dietro l’alto steccato. La osservò nella sua gracilità e si commosse fino alle lacrime per la compassione che  aveva generato  nel suo cuore lo sforzo che la piccola pianta faceva nel cercare il sole, la luce e la vita. Una energia nuova pervase  tutto il suo essere  e istintivamente buttò giù due o tre pali dello steccato per far entrare la luce del sole e aiutare  la piantina a crescere. Da quel momento il desiderio del signor X era di eliminare ogni steccato, ogni barriera, ogni cancello, ogni ostacolo, ogni limite fisico e psicologico. Egli era felice e provava una tale gioia che trasmetteva agli altri senza parole, con piccoli gesti  di attenzione verso tutti. Grazie all’esempio di Omar che lo aiutava  e collaborava con lui , aveva imparato ad apprezzare e dar valore ad ogni cosa, mentre    la signora Y , coinvolta dal sorriso e dalle attenzioni che le dedicava Amina, decise di uscire da casa e  godersi i colori dei fiori del loro giardino che ormai crescevano rigogliosi grazie al sole e all’aria che arrivavano indisturbati e non più ostacolati. Non si preoccupava più del venticello e non aveva  mal di testa nonostante passasse diverse ore della mattinata a pulire le piante e a togliere le erbacce del giardino.  La signora Y e suo marito avevano acquisito un bel colore dorato che dava loro un’aria salutare e sorridevano ai passanti  invitandoli ad entrare per godere insieme a loro di quel meraviglioso giardino. Un giorno decisero di dare una festa e invitarono tutti gli abitanti di quella piccola isola per far conoscere a tutti Omar e Amina, i ragazzi portati dal vento.
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