Premiati V° ed. – Sezione Prosa

Vincitore assoluto: Federico Giagnorio

1. Federico Giagnorio – Ovunque nel Tempo

 «Se stiamo insieme qualche cosa c’è, che ci unisce ancora stasera. Mi manchi sai, mi manchi sai… “Se stiamo insieme”, Riccardo Cocciante, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo. Ma voltiamo pagina: la scomparsa di Walter Chiari. Secondo alcune indiscrezioni sarebbe stato trovato
dall’impresario Zibelli…» ruotò la manopola dell’autoradio. Non era il momento di mettere una nota di tristezza alla sua giornata.
Da due mesi a questa parte, la cascina sul lago era il suo appuntamento fisso. Quel fazzoletto di terreno era tutto per suo nonno. Recarsi lì era come continuare a tenerlo vicino. Calpestare la stessa erba, guardare la stessa alba, sedersi sotto lo stesso albero, respirare la stessa aria.
Imboccò la strada sterrata mettendo a dura prova le sospensioni della vecchia Renault, poi l’ultimo rettilineo fino al lago. Ai lati, i campi brulli in paziente attesa delle nuove semine.
Non era solo la tradizione di avere lo stesso nome dei nonni, tra loro c’era sempre stato qualcosa di più. I suoi racconti avevano un forte ascendente su di lui. Storie di tutti i giorni, la sua campagna, i giorni di leva e quelli della guerra. Era marconista, una lieve disabilità al ginocchio destro non lo rendeva utile sul campo, ma soprattutto era uno dei pochi ad avere un grado d’istruzione.
Lasciò l’auto sotto il porticato della cascina. Passando per l’aranceto si procurò lo spuntino di metà mattinata e imboccò il viottolo di pietra che costeggiava Canal Grande fino allo sbocco sul lago. In
quell’angolo di ineffabile bellezza, sorgeva un pagliaio che da piccolo gli ricordava tanto quei film sugli indiani d’America, affiancato da uno spilungone albero di eucalipto. “Il vecchio beone” lo chiamava il nonno, perché era suo compito tenere il greto asciutto.
Aveva costruito il pagliaio come riparo di fortuna quando ci andava in bicicletta, prima che potesse permettersi di edificare la cascina, quando un temporale poteva coglierti di sorpresa o quando il sole estivo ti metteva a dura prova, ma per quello preferiva il vecchio beone che con le
sue radici sporgenti ti accoglieva in un fresco abbraccio. In quella piccola insenatura piaceva anche a lui sentirsi confortato, sentirsi in pace con la natura. E sempre in quella stessa insenatura scoprì qualcosa che non si sarebbe mai aspettato: il nonno aveva un diario.
Lo teneva in un sacchetto di plastica. Con un chiodo era appeso nella cavità del tronco che, oltre ad occuparsi delle acque del canale, custodiva i suoi ricordi. In verità era un’agenda del 1952, forse avuta in regalo quando aprì il suo primo libretto di risparmio.
Scoprì il diario la prima volta che visitò la campagna ormai rimasta orfana. Un motivo in più per recarsi lì ogni volta che poteva. Era scritto con una grafia minuta. Racconti che un giorno sarebbero diventati ricordi.
Appunti, pensieri, riflessioni. Pagine e pagine che non recavano nessuna data, come a dimostrare che ogni giorno meriti di essere ricordato per quello che ha avuto in serbo per te, non per la sua data. Lo aveva letto poco alla volta per paura che finisse subito, per paura di dover salutare quell’ultima parte di sé che aveva lasciato, e stavolta per sempre.
“Stamattina ho tirato fuori una luscegnola dal pozzo. Credevo di averle salvato la vita, ma mentre strisciava via, un nibbio ha fatto di lei il suo pranzo. Non mi sento in colpa per aver spezzato un equilibrio, piuttosto mi sono soffermato a pensare. Non tutto quello che credi sia
giusto, poi si rivela esserlo”.
Sfogliò ancora qualche pagina.
“Ieri siamo stati qui con tutta la famiglia. Abbiamo pranzato e ci siamo divertiti. È stato bello vedere tutti i nipoti insieme nello stesso momento. Si rincorrevano felici come solo i bambini sanno fare. Loro sono figli dei miei figli, spero che un giorno si rendano conto di essere anche
figli di questa terra che tanto ci ha dato”.
Non era la prima volta che leggeva quelle righe. Ogni volta gli davano una sensazione di felicità mista a nostalgia della sua infanzia. Il nonno aveva sempre avuto loro nei suoi pensieri e si riteneva fortunato non solo per questo, ma anche perché era riuscito a dimostrarlo in qualche modo. Quanti invece non sapevano armeggiare una penna o semplicemente non conoscevano le parole giuste?
Aveva scritto a proposito delle semine, appunti incomprensibili, la conta delle lune per scegliere i giorni migliori per la raccolta. Tutto della vita del suo orto era impresso come una lastra su quell’agenda del 1952. Aveva scritto del coraggio che gli mancava nel dismettere il pagliaio, del giorno in cui anche le rane avevano smesso di gracchiare quando il suo dirimpettaio di canale perse suo figlio. “Anche se perdi tuo figlio, non smetti mai di essere un padre” scrisse quella volta.
Sbucciò l’arancia prima di leggere le ultime pagine.
Il sole aveva ormai fatto capolino da più di un’ora e regalava un piacevole tepore. Aveva la sensazione che il nonno scrisse quelle parole consapevole che sarebbero state le ultime.
“Per quasi quarant’anni mi sei stato un caro compagno. Mi piacerebbe dirti che continuerò a scriverti, ma so che non sarà così. Potrei portarti con me, ma questo è il tuo posto e ti lascio nelle buone mani del vecchio beone. Mi hai aiutato a portare avanti le mie piantagioni quando la memoria non era più forte. Non so se mai qualcuno ti leggerà, io lo spero. Chiunque tu sia, ti chiedo solo di lasciarlo qui. Potrai imparare più di quanto tu voglia apprendere. Noi due ci stiamo parlando nel tempo, ed è questo il bello. Io sto scrivendo nel mio presente e tu stai leggendo nel tuo presente. Probabilmente abbiamo la stessa età anche se forse io non ci sarò più da un bel pezzo.
Rispetta questo posto e saprà ripagarti coi suoi frutti. Questo è un posto da cui si guarda lontano, che mi ha sempre permesso di vivere un’esistenza dignitosa senza allontanarmi dallo scopo della vita stessa: quello di essere felici”.
Quasi certamente lo era stato. A contatto con la terra, ne aveva assaporato il fascino, il mistero, il senso sublime del passaggio in questo mondo, creatura divina nel grembo della Natura che, madre benevola, dispensa i suoi frutti, i colori, respiri fatti di linfa secreta, di radici profonde, di verdura grondante stille; natura che guarda il cielo, subisce il rumore del vento, lo scoppio del temporale, la quiete della notte, la coltre della neve, lo spettacolo del tramonto; natura che profonde questa “bella d’erbe famiglia e d’animali” scriveva Foscolo. Palcoscenico che dà sacralità al silenzio del tempo in una adorabile simmetria. Natura che ci dà il mare, i laghi, i fiumi, l’acqua: “utile, umile, preziosa e casta” la definiva San Francesco.
Richiuse il diario e lo rimise al suo posto con la stessa cura del nonno, ne era certo. Non credeva sarebbe stato letto dal nipote dopo così breve tempo. Era in gamba, certo, ma i nuovi ragazzi avevano altri obiettivi. Lavorare la terra era faticoso e il mondo stava imboccando una
nuova strada.
Tornò al porticato. Prima di rimettersi in macchina diede un ultimo sguardo al vecchio beone. Sovrastava tutto con sguardo attento senza tralasciare il suo compito al greto.
Per un attimo pensò che quello era suo nonno, le sue radici. Quelle che si sporcano le mani per reggerti, per sostenerti, che ti abbracciano nei giorni di calura d’estate. Quello era suo nonno, forte e dalla corteccia robusta. Di quelle cortecce che, se sai guardare attentamente, nascondono all’interno una storia d’amore infinita.
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