Il volo di un gabbiano

Si sentiva smarrito Omar.

Si meravigliava e si chiedeva dove fosse finita l’essenza dolciastra del tiglio che assaporava con respiri costanti, lungo il viale, fino ad inebriarsene, guadagnando a passi svelti il centro della città.

E che fine avessero fatto i crepuscoli rarefatti e lattiginosi dove il sole si mescolava col cielo e diventava difficile distinguerne i confini.

Dove era l’aria stagnante della sera?

Si sentiva diverso e straniero laddove era tutto dannatamente famigliare.

Sradicato. Abbandonato a se stesso. Disperso come un naufrago nel mondo che non ha meta precisa ma si aggrappa ad un solo pensiero: salvarsi!

Voleva salvarsi, Omar, ora che il male gli stava divorando, poco a poco, la carne.

Salvarsi significava vivere e vivere voleva dire fuggire via lontano. Lui se n’era andato là, dove era stato prima bambino e poi ragazzo e poi uomo a lenire il suo dolore, a tentare di ricomporre i cocci di un’anima oramai snaturata e completamente lacerata.

E ora, che non è più lui, in un mondo paradossalmente vecchio e nuovo, si muove stanco, in bilico tra terra e mare e lascia orme che l’acqua cancella mentre il vento agita la sua pelle.

Alza lo sguardo e vede un gabbiano che con virtuosa maestria si libra nell’aria in un volo acrobatico e con forza si tiene sospeso, immobile e controcorrente. Chiude gli occhi e diventa gabbiano, Omar, e non avverte più niente: né acqua, nè sabbia. Nessuno del più atroce dei dolori avrebbe potuto fargli dimenticare di quanto fosse vivo.

Adesso ascolta la follia del vento che con ogni raffica mai uguale semina un’inquietudine sempre diversa nelle cose.

“L’equilibrio instabile della natura e della vita è eccitazione e non precarietà”.

E’ felicemente turbato da tutto quel rumore, tutto quel divenire e osserva giunchi e arbusti secchi che si piegano e si sfregano con timbrica sabbiata e pensa a quanto è crudele il destino di un uomo.

Intanto la canicola del pomeriggio fa più selvaggio quel posto primordiale rendendone più vivide le linee e i confini e sgargianti i colori.

E’ stanco Omar, nel fisico, gobbo sotto il peso sempre più insopportabile della sua malattia ma ubriaco nello spirito e pienamente appagato dalla vitalità e dalla forza prorompente di quel mondo.

E improvvisamente si rivede bambino e rivive un attimo di spensieratezza mentre si arrampica a mani e piedi nudi, con l’esitazione del vecchio, sull’ultimo scoglio. Si aggrappa alla roccia, la stringe quasi a volerla plasmare ma si accorge che è dura quella pietra, ruvida ed essenziale.

“Ogni popolo è figlio della propria terra e non la puoi plasmare questa gente”

Arriva la sera a mortificare la calura e a spegnere le luci del giorno. Caparbio, Omar è ancora li, coi suoi pensieri, sull’ultima appendice del mondo. Guerriero dopo la battaglia, aspetta trepidante che venga il silenzio a placare le turbolenze della sua anima. Si abbandona in un’oasi di pace fatta di acqua, terra e cielo.

Non c’è rumore là in fondo; l’eco lontana di un cane solitario si confonde col sottofondo sonoro dell’acqua molle che accarezza la roccia.

Omar cerca le colline e le trova, più nere delle notte. Un brivido attraversa la sua pelle, nuda, per arrestarsi con violenza ed esplodere nel suo cuore: su quei rilievi, nel buio, brillano le luci di un borgo, il suo borgo. Ne è incantato e visibilmente emozionato e pensa a quanto sia sorprendente la vita che ritorna, alla fine del viaggio, dove tutto è iniziato.

In questa quiete senza tempo, in questo spazio infinito che sa essere anche rifugio e porto sicuro Omar abbandona , senza logica, ogni pensiero e contempla un’idea consolatrice e salvifica: lasciarsi andare dolcemente e con eleganza e perdersi nella notte.

Non ci sarà una nuova alba per lui, dietro quelle colline.

 

Tommaso Stefania

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