Sezione Racconto – Vincitori II° Edizione

1 Premio: La scolla, di Pina Curatolo
2 Premio: Matrimonio d’inverno, di Lucia Guida
3 Premio: La forza delle donne, di Simonetta Di Benedetto

1 Premio: La scolla, di Pina Curatolo
Nel secondo cassetto del mio comò è riposta una scolla.
La trama è ormai consunta, i colori sbiaditi, come i ricordi di un’infanzia lontana.
Apparteneva a mia nonna. Donna d’altri tempi.
Gonna ampia e lunga fino al polpaccio, arricciata in vita;
giacchino corto con maniche a trequarti, chiuso sul davanti da un’ abbottonatura e stretto in vita, dalla quale partiva un’ ampia balza che ben si addiceva  alla gonna.
I capelli ormai bianchi, intrecciati e raccolti sulla nuca, e avvolti, come un tenero abbraccio, dalla scolla.
Dicono di lei che da giovane era ardita e avveduta, una maestra mancata. Durante la guerra leggeva lettere alle comari del quartiere, lettere provenienti dal fronte che i mariti mandavano alle loro famiglie.
Lei traduceva quei simboli grafici in parole, interpretava    preoccupazioni e rassicurazioni, amore e nostalgia.
Fedele compagna del nonno. Lavoratrice instancabile, legata da un cordone ancestrale alla sua terra.
Quella terra che scandiva le stagioni regalando i suoi frutti, ma che nello stesso tempo accoglieva nel suo grembo innumerevoli vite prepotenti e selvagge. La forza delle braccia doveva arginare, ogni giorno, l’irruenza di fitte e solide radici. Quelle mani pazienti e callose impugnavano ora la falce, ora la zappa e, con la schiena ricurva, infierivano colpi taglienti e mortali.
Come tutte le mattine, anche lei si alzava al canto del gallo, quando le prime luci dell’alba regalavano i colori al nuovo giorno.
E mentre il nonno caricava la sella sul mulo, a cui legava il barile, la sacca contenente l’essenziale per un pasto fugace e le scale, lei nella stalla dava il grano alle galline, dopo aver fatto il letto e spazzato per terra.
Appena pronta, il nonno si inginocchiava su una gamba , sul fianco del mulo, e lei, appoggiandosi sull’altra piegata, saliva per sedersi sulla sella.
Il nonno prendeva la cavezza in una mano e conduceva il mulo, la nonna, come una regina, si abbandonava a quell’incedere a lei familiare.
Iniziava un nuovo giorno di duro lavoro.
L’aria frizzante mattutina rinvigoriva le membra, gli zoccoli sui sassi levigati dal tempo scolpivano suoni di ferro.
I passi del nonno erano flemmatici e il mulo scandiva i suoi con lo stesso ritmo, in una sintonia perfetta.
Era l’inizio di una nuova giornata d’autunno.
Le olive nere e lucenti, ormai giunte a maturazione, aspettavano di essere raccolte.
Lungo i tratturi si incrociavano gli sguardi dei contadini, intenti a raggiungere la propria destinazione, un saluto fugace sfiorava i loro cammini.
Le donne in sella sulle bestie, si scambiavano il buongiorno.
La campagna brulicava di gente, le voci di donne e di bambini, l’abbaiare dei cani e i ragli degli asini creavano un fermento di vita.
Giunti sul posto, stendevano i teli sotto un albero e alzavano, come ponti levatoi, le scale di legno pesanti appoggiandole agli incroci dei rami dell’albero.
La nonna con incedere sicuro conquistava la cima e le sue mani cominciavano a scivolare sui ramoscelli con un fare che si tramandava da generazioni, in una lingua che si trasmetteva sin dalla più tenera età.
Le olive cadevano con un tonfo sordo sul grembo dei teli pronti ad accoglierle.
Intanto un tiepido sole faceva capolino tra le fronde degli alberi, e un canto di donna si alzava insaporendo quell’aria mattutina.
Le note intonavano stornelli improvvisati che raccontavano storie quotidiane di uomini e donne, allusioni a fatti, condite con un pizzico di civetteria e malizia.
Poco più lontano, un’altra donna rispondeva a quelle provocazioni e così le ore trascorrevano distratte, addolcendo la fatica di quel lavoro.
A sera la stanchezza era tanta, ma la nonna ricominciava con le faccende domestiche: faceva uscire le galline dalla stalla, andava a prendere l’acqua alla fontana, accendeva il fuoco e stendeva la pasta.
Finalmente seduti intorno all’unico piatto consumavano un pasto essenziale, arricchito da erbette raccolte in campagna.
La giornata volgeva al termine, davanti al fuoco del camino si assopivano stanchi, con gli occhi inondati dal tepore della fiamma si abbandonavano ad una dolce e pacata sonnolenza.
Intanto il buio scendeva silenziosamente, le ultime luci del giorno affidavano alla notte i loro colori.
E dopo aver governato il mulo e riassettato la stanza, si avviavano, a due passi da lì, verso la casa dove la notte li avrebbe accolti con un sonno ristoratore.
Mia nonna si spogliava, si toglieva le calze mettendo a nudo le gambe bianche come il latte, si toglieva la scolla e l’appoggiava sulla sedia, pronta per l’indomani.
Nei miei ricordi vedo spesso mia nonna con la sua scolla in testa: quando i suoi pugni affondavano nell’impasto bianco del pane; quando le sue braccia si alzavano verso il cielo per stendere i panni odorosi di lisciva e sapone; quando il suo collo reggeva la vasca colma di acqua della fontana.
E in un tardo pomeriggio d’estate, nell’ora in cui le rondini volavano basse, rincorrendosi frenetiche in un’aria calda e gioiosa, riempiendola di suoni, la vedo seduta all’ombra del fico, lavorare con i cinque ferri la calza e una leggera brezza sfiorarle la scolla.
Per questo la serbo con affetto, questa scolla è la storia di una vita, di una vita dura, sottomessa e muta quando le parole erano sorde.
Questa scolla è la storia di una donna che con passo deciso e occhi mai bassi ha intriso di sudore la terra.
La mia terra.
 
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2 Premio: Matrimonio d’inverno, di Lucia Guida
 
Lina guardava attraverso la pesante porta di legno e sospirava, temendo che i suoi pensieri più cupi potessero realizzarsi. Era una sera di febbraio e la neve continuava a cadere incurante delle sue aspettative e delle sue speranze. Per cucire l’abito da sposa ci aveva speso sere intere attorno al lume a petrolio giacché a casa sua l’elettricità non c’era. Era cosa da ricchi, da signori. Quando le zie le chiedevano di portare a casa di don Matteo Capuano, speziale, le forme di pane fragranti di forno, guardava sempre con stupore la lampada di vetro luminoso così brava a fugare il torpore invernale di giorni che, invece, a lei sembravano non finivano mai. Immaginando, con quell’aiuto, di far fruttare il poco tempo serale a disposizione da dedicare alla “robba”, al suo corredo, rubandolo al languore che in casa sua d’inverno scendeva troppo presto, dopo ore ritmate dalla fatica sin dall’alba.
Essere fornai era ricchezza e disperazione assieme.
Una fortuna d’inverno potersi scaldare al fuoco sempre acceso pensando nel contempo a quell’arte gravosa ma fruttuosa, fonte della loro sussistenza, che spesso la costringeva a levate antelucane quando le zie, oberate dalla fatica, erano costrette a chiederle di abbandonare il letto per un po’ d’aiuto extra.
E di notti lunghe e di giornate affannose dai cieli grigi e uniformi, ce n’erano state tante, ultimamente. Per il suo sposalizio le zie non avevano lesinato, empiendo cesti di tarallucci, pastaredde e prupate profumati alla cannella e ai chiodi di garofano. Zia Nunzia era stata categorica: avrebbe dovuto valere per la festa che alla promessa, lu revèle, non c’era stata e per le nozze che sarebbero state celebrate secondo le usanze paesane l’indomani, giovedì 14 febbraio. Lina guardò con occhi lucidi lo spazio familiare che l’aveva accolta da piccola ora disseminato di ogni ben di Dio, i fiaschi di vino rosso e le
più raffinate bottiglie di rosolio ammucchiati ai lati dell’ampio camino. Tutto era pronto, architettato alla perfezione da quelle brave paraninfe di Michelina e Nunzia. L’indomani in Chiesa Madre all’altare sarebbero salite in tre: lei e le sue zie, a coronamento di una sorte matrimoniale che per loro a suo tempo e per vari motivi non si era compiuta.
Pensò preoccupata alle scarpine di pelle nera con cui avrebbe il giorno appresso sfidato gli eccessi di quell’inverno rigido di montagna, sfilando nel corteo nuziale al braccio di uno zio paterno tra cumuli di neve e lastre sottili e infide di ghiaccio. Le venne da pensare a sé come a un ciuffo di primule appena spuntate nella Defensa a sfidare il gelo in un trionfo di broccato colorato a celebrazione della sua gioventù e dei suoi desideri migliori. A un fischio noto trasalì e corse di là, nello stanzone che era la loro camera da letto, l’enorme ferriata delle zie e il suo lettino, una madia scura con colonnine a torchon sormontata da un lume di porcellana antico, una campana di vetro con la Madonna Addolorata, santini e foto sbiadite dei morti di famiglia rischiarati da un lumino. Era certamente il suo promesso e non era il caso che la vedesse prima del tempo. Le zie accorsero al segnale e consegnarono allo sposo e al compare d’anello la loro parte di banchetto nuziale perché fosse portata a casa dei futuri suoceri, più ampia della loro, serrando di scatto le imposte ma non abbastanza da non permetterle di scorgere gli occhi chiari di Angelo, i capelli biondi spolverizzati di fiocchi minuti, le guance arrossate dal freddo e da pensieri facilmente intuibili. Abbassò gli occhi ritraendosi. Poi, insieme alle zie, cominciò a recitare il Rosario come ogni sera, pregando per il suo bel sogno d’amore, principiato al pellegrinaggio al santuario di S. Maria di Stignano durante una maggiolata propizia. L’aveva incontrato lì, bello e aitante d’aspetto, appena congedato dal servizio di leva obbligatorio. Si erano piaciuti a prima vista, lei capelli e occhi scuri e pelle di latte e lui così nordico per quelle latitudini. Nemmeno l’anno in più di Lina aveva fatto la differenza. Angelo aveva preso a corteggiarla con discrezione, passando varie volte per la strada in cui lei abitava e gettandole occhiate ardite, da lei ricambiate con piacere. Lina aveva interrogato il destino la notte di San Giovanni e l’albume d’uovo coagulato nell’acqua si era definito in una pala, strumento evidente del lavoro di cantoniere del suo spasimante. Fino a quando zì Nicola, in qualità di ambasciatore, aveva chiesto di conferire con lo zio Pietro. L’incontro, però, non era stato dei più felici; suo zio non era convinto che Angelo, di famiglia di contadini, potesse andar bene per lei, nipote di fornai. C’era voluta tutta la risolutezza benevola delle zie, cui Lina si era confidata, per convincerlo che il salario del giovane sarebbe stato una degna aggiunta ai proventi dell’arte bianca di tradizione familiare. Alla fine lo zio aveva ceduto e Angelo si era visto recapitare il tanto agognato mazzolino di fiori, segno di approvazione della famiglia di lei alla sua corte rispettosa.
Lina finì di sbirciare la nevicata sottile che aveva ricoperto e ingentilito le irregolarità della scalinata davanti alla sua casetta.  Il cielo era ovattato e chiuso in un biancore incerto che la fece sospirare ancora ma stavolta non la scoraggiò.
Si strinse al petto un fazzoletto ricamato pegno del suo amore, certa che uno identico l’avrebbe sfoggiato Angelo nel taschino del suo “abete nove”. Poi Nunzia e Michelina le augurarono la buona notte ciascuna con un bacio.
Tra due giorni la loro amata nipote avrebbe compiuto vent’anni di vita come donna maritata. “Cu la grazia di Dije”, certamente.
Tra le viuzze silenti del paesino abbarbicato con fiduciosa tenacia a rocce benevole senza tempo correva, imperturbabile e sereno, l’anno 1924.
 
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3 Premio: La forza delle donne, di Simonetta Di Benedetto
 
Il treno correva veloce mangiando i binari talmente in fretta che Marta non riusciva a vederli singolarmente. Sembravano piuttosto scie sbiadite di grigio che bene s’intonavano con la nebbia che aleggiava a tratti sfumando verso la brughiera. Gli occhi stanchi di Marta si posavano qua e la seguendo ora paesaggi lontani, ora strappi di oggetti che la velocità non permetteva di fissare.
Tutto le sembrava estraneo, nuovo, ma non quel nuovo che stimola l’entusiasmo e la voglia di conoscere. Piuttosto un inquietudine di quello che poteva essere sperimentato, provato e forse lasciato indelebile nelle pieghe dell’anima. La paura del viaggio non era il percorso sconosciuto ma la meta che poteva cambiare definitivamente la vita e nulla poteva tornare come prima.
Marta aveva viaggiato tanto, in lungo e largo per l’Europa e, di tanto in tanto, si era fermata da qualche parte. Londra, Parigi, Arles e  Barcellona erano state residenze brevi ma che le avevano permesso di apprendere tre lingue e di lavorare viaggiando. Marta aveva preso tanti treni perché la sua repulsione per il volo la costringeva ad essere ancorata alla madre terra con qualsiasi mezzo, tutto purché terrestre. Non era proprio repulsione al volo ma semplice paura di staccarsi dalla superficie, di sperimentare un elemento non solido che le impediva di sentirsi al sicuro.
Ma quella mattina si sentiva inquieta anche sul treno e a nulla serviva il fissare il paesaggio, la nebbia, il gioco tra la natura e la velocità del treno. Decise di togliere lo sguardo dal finestrino e si focalizzò  sulla bambina che piangeva, sul vecchio che cercava di leggere un quotidiano, sul ragazzo che cercava un approccio con la straniera, sulla signora che parlava con l’amica dei suoi problemi. Su quello scompartimento era presente una varietà di fauna umana che avrebbe distratto chiunque ma non lei, non la sua mente assorta nella meta, nel dopo, nel chissà.
II treno lentamente si fermò e gli oggetti e gli alberi e l’erba divennero più nitidi. Riuscì a leggere il nome della stazione e l’orologio che quasi penzolava dal soffitto. Era già quella ora del mattino in  cui  il treno inizia ad affollarsi di pendolari.
Marta era stanca di quel viaggio che durava già da cinque ore, era annoiata dai paesaggi cosi grigi e anonimi, era indifferente alla gente che le faceva da cornice. Di solito era molto incuriosita dalle persone e quando viaggiava trascorreva il suo tempo immaginando la loro vita. Scriveva delle vere e proprie scenografie e le drammatizzava e si divertiva a creare finali spettacolari dove tutti applaudivano e si divertivano.
Questa volta non immaginava, non si divertiva, non cercava, non parlava, voleva solo arrivare. Il treno ripartì e lei cominciò a prepararsi per la discesa.
Prese la valigia, salutò gli anonimi passeggeri, si diresse verso l’uscita e si mise in piedi davanti alla porta quasi volesse tagliare il traguardo prima degli altri.
Il paesaggio lasciava il posto a casuccie e poi a palazzi e poi prese forma la città sempre più grande e minacciosa.
Era la seconda volta che andava a Genova ma la ricordava solare ad accogliente. Ora no, ora sembrava respingerla come una molla e un dolore allo stomaco l’assalì.  Stefano l’attendeva all’uscita ma avrebbe volentieri ripreso quel treno per tornare a casa, nel suo sole e nelle sue spiagge, nei suoi sorrisi e nelle sue certezze.
-Signora scende?- udì da una direzione indefinita.
– Si si.. certo- balbettò Marta che era talmente immersa nel suo flusso da non accorgersi che il treno si era già fermato.
Scese dal treno con un angoscia che non aveva mai sentito prima e si diresse verso l’uscita. Non conosceva l’auto di Stefano ma lo vide lì, in piedi e le si avvicinò. Una stretta di mano, un abbraccio ed una valanga di parole e sorrisi la scaldarono e per un attimo dimenticò la ragione del suo viaggio.
Salì sull’auto ed in poco tempo erano  davanti ad un enorme edificio color bianco invecchiato.
-E’ questo il Gaslini- indicò Stefano
-Grazie, sei stato un vero amico a portarmi qui  a quest’ ora del mattino… magari avresti dormito ancora un bel po-
-Non ci pensare e prendiamoci un caffè- disse sorridendo Stefano
-Devo essere a digiuno-
-Accidenti, dopo una nottata in treno anche il digiuno… che forza che sei!-le rispose Stefano abbracciandola
Marta entrò nel grosso atrio e si diresse verso l’unica scritta che riusciva a leggere.
Il reparto era al secondo piano.
S’infilo nella rampa di scale divorandola per rendere più veloce il tragitto. Chiese ad una donna con un camice che la diresse verso una stanza con quattro lettini. Il tanfo che usciva dalla camera  era un misto di alcool etilico e muffa che male si abbinavano.
-Immagino che quello vuoto sia il mio-
-Si, si infili la camicia da notte e attenda il prelievo- annuì un infermiera spettinata e stanca.
Marta si guardò attorno e vide tre donne che la guardavano. Una signora alta e magra prese coraggio e le chiese perchè si trovasse li. Avrebbe voluto dire “scusate ma non ho voglia di parlare” ma il sorriso e il calore con cui le fu chiesta la domanda non meritava silenzio.
-Sospetto nodulo al seno, me lo asportano  stamani- rispose seccamente.
-Sei in buona compagnia… io sono Lucia e  ho già avuto tre interventi e due cicli di chemioterapia- continuò la signora alta –ma non preoccuparti perché nonostante il seno io continuo la mia vita meglio di prima.. vado a ballare e mi diverto e qui dentro ho incontrato delle vere amiche, delle vere donne che sanno come combattere e tirar fuori le unghie quando è necessario-
Molto peggio a me- rispose una signora sulla cinquantina- che domani devo avere una isterectomia, e poi non si sa-
Marta aspettava l’intervento della terza persona che rimase in silenzio con aria triste e assente. Era pallida e smunta e dal viso scarno spuntavano in rilievo due occhi blu dolci e melanconici.
-Anche lei deve operarsi? –
-I dottori mi hanno detto che non possono operarmi ma non so perché. Fra poco arriverà mio figlio e parleranno con lui.. avessi almeno una figlia femmina e invece con un figlio ho quasi vergogna a parlare dei miei problemi. Ho perdite ematiche da diversi mesi e non ho una camicia da notte pulita-
Marta le offrì la sua di riserva ancora imbustata e la signora ringraziò con un sorriso ed una lacrima.
Si  sentì parte di loro, quasi fosse entrata in un club e avesse ricordato la parola d’ordine. Era sollevata dall’accoglienza e sorrise anche lei-
Sistemò gli oggetti nell’armadietto,  si infilo  il pigiama e si sedette sul letto.
Un’altra donna entrò nella stanza. Aveva una bandana in testa e  sotto di essa si notava la calvizia. Iniziò a chiaccherare con Lucia, la signora alta, e ridevano e scherzavano fra loro con un allegria infantile e spensierata che Marta non riusciva a capire. Erano malate e con ipoteca sulla vita ma sembravano felici o rassegnate. Ma non di quella rassegnazione passiva bensì  quella grintosa, che fa godere la vita perchè si sa  che essa è un dono prezioso nel momento in cui si potrebbe  perderla ed ogni singolo istante è un dono, è un’opportunità.
Parlavano di altre donne che erano state ricoverate e che non c’erano più e si consideravano fortunate ad essere ancora lì in ospedale a subire un altro intervento, un’altra mutilazione perchè ciò significava essere vive, avere ancora giorni ed esperienze, avere ancora opportunità di incontrare persone nuove e di  ridere ancora e ancora.
Marta fu chiamata per l’intervento ma quando si alzò dal letto le gambe non le tremavano, lo stomaco era silente e la sua mente serena. Cosa le stava succedendo? Eppure era pazza di paura per un esito positivo..ma mancavano ancora giorni all’esame istologico ed in fondo era solo un’asportazione..ed in fondo era giovane e stava bene..ed in fondo era donna, si..donna come Lucia e le altre che affrontavano con il sorriso una malattia schifosa..si donna ..e mentre percorreva il corridoio dell’ospedale le vennero in mente tante donne che avevano lottato e  lasciato una traccia indelebile del loro passaggio. Le vennero in mente donne storiche a cui si appoggiava nei momenti difficili..pensò a Madre Teresa che aveva incontrato quando era adolescente e il volto di tante donne le passarono davanti come se vedesse diapositive in sequenza.
Che forza queste donne, pensò, che forza..si forza..le donne danno sempre dimostrazione di coraggio e di forza… ed io sono una donna…si donna.
Entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé.
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