Visione tra due mari

Al pomeriggio di questi tempi, sempre alla stessa ora, l’ora meridiana, quella in cui a terra tutto è muto e fermo, pesante e l’aria è di vetro, le cornacchie segnano col loro richiamo il tempo che passa. Stromboli all’orizzonte, immobile. Nonostante tutto il tempo trascorre e il suo essere non è che un eterno divenire, costante, inarrestabile e indifferente alle sorti umane.I loro richiami acuti e soli nel silenzio mediterraneo che predispone al prodigio segnano le ore e pure paiono suggerirmi un attimo di pausa da tutto. Esattamente in quegli attimi il mio corpo pare riprendersi dall’aria di pietra scalfita solo dal battere d’ali corvine e mi appare il ricordo di un altro pomeriggio eterno.
In estate le coste affollate e prevedibili ci respingono e rivolgono lo sguardo alla terra. Così decidiamo di attraversare il Gargano questa volta ‘da dietro’ come se ci fosse una ribalta e un retroscena in ogni angolo di terra. La ribalta di tanti è la costa con le sue località marine, tanto diverse eppur simili nella loro patina tutta uguale da terra promessa per una settimana l’anno. Ma ‘dietro’ nessuno passa, un territorio mentale più che geografico, il luogo della rimozione, pietraie assolate dove ‘non c’è niente’, dove nessuno osa per non trovare il niente.
E dunque partiamo. E’ la ricerca del neutro che cerchiamo inconsapevolmente, dietro, lontano dai rassicuranti luoghi del meritato riposo annuale. Ci addentriamo in un luogo senza tempo, o meglio dove il tempo non è quello salariato operaio o piccolo borghese. Qui respira un tempo pastorale, i colori arcaici della vegetazione legnosa affaticata dal sole e dalle pietre non danno scampo ai nostri occhi socchiusi dalla luce.
Il mattino presto svanisce e ci consegna esausti all’ora meridiana. È in questi momenti che tutto può accadere, o anche niente. E se accade niente, il niente, allora accade tutto.
Una strada interpoderale nella campagna assolata e desolata tra San Marco in Lamis e Sannicandro, non capiamo più dove siamo, ad un tratto fermiamo l’auto, assaliti dai tafani. Queste presenze sono fatalmente attirate dalla lamiera lucente e rovente dell’auto e impazzite le ronzano attorno sbattendoci instancabilmente contro. E’ così che ci affrettiamo a chiudere tutti i finestrini e ripartiamo, ma il caldo ci soffoca, manca l’aria e l’aria è satura di tafani e non possiamo berla a gola aperta. Andiamo via, e si mescolano le ali degli insetti ad una nuvola di polvere. Poco più avanti riapriamo i finestrini. Il tempo trascorre immobile. Non c’è nessuno. Alcuni metri e il muretto a secco che costeggia il sentiero si allarga su un lato e superato un grande fico d’india prende la forma di un pozzo. Scendiamo dall’auto, la struttura in pietra a secco appena si solleva da terra e pare profonda. Pietre sistemate calano nella terra il nostro sguardo nel buio. Vorremmo per un attimo scomparire lì dentro cercando refrigerio o forse solo oblìo.
Ma nel frattempo l’arsura è tremenda, l’assordante presenza delle cicale che sembrano lame d’acciaio sulla roccia grigia. Il sudore viscoso di terra sulla pelle ci cola negli occhi, rialziamo la testa dalle profondità del pozzo e appare poco distante uno spaventapasseri di pezza che ci coglie impreparati. La sua fissità senza sguardo è come un idolo ancestrale, presenza profonda più del pozzo. La visione subito scompare perché in quel mentre il frinire comincia a intrecciarsi col forte ronzìo di nuovi tafani che questa volta ci assalgono e s’incollano addosso, disegnando attorno a noi figure aeree di rovi altrettanto pungenti e inestricabili. Nudo il corpo al loro movimento imprevedibile, facciamo appena a tempo a risalire in auto e osservarli sui vetri.
Il loro colore nero come le cornacchie è un presagio divino, personificazione di demoni tellurici che sopravvivono e sopravanzano le troppo brevi luci magnogreche, le certezze classiche che pur hanno abitato il Mediterraneo. Presenze autoctone che abitano gli anfratti dell’animo da prima e oltre Apollo e Dioniso. Le tempie bagnate, il sangue ci sbatte nelle orecchie incessante come un tamburo di pelle di capra, le cicale metalliche suonano come piattini e il suono essenziale di quello che dalle nostre parti si chiama tammorra, qui tamburello, ci svela all’improvviso la sua necessarietà. D’un tratto è chiaro che il loro suono non è prodotto dall’uomo ma è l’uomo che è suonato da essi. Quel ritmo ineludibile è pratica di spossessione perché è essa stessa una possessione. E’ esorcismo di se stesso, come un veleno che si assume in piccole dosi per vaccino. E non si sa se funziona.
È solo tempo dopo che una sera alla fontana del paese Antonio Piccininno ci raccontava delle estati pastorali della sua infanzia, e noi ascoltavamo seduti. Si fece amaro: “Tanti anni fa, quando non esisteva il DDT nelle campagne c’erano molti più insetti. Quando stavi con gli animali, a volte ti faceva sete. Se andavi a bere” – proseguiva con una smorfia delle labbra e del naso – “’e ‘mmosche te magnavano…”.
Un attimo di pausa della memoria e i campanellini delle capre ne approfittano dicendomi che l’aria sta cambiando e il tempo ricomincia a scorrere, è pomeriggio inoltrato. Luoghi e odori paiono dissolversi, tranne uno: rientro in casa e sulla mensola sopra la cucina a fornacelle prendo il barattolo, dentro l’ultima manciata di capperi di Rodi, è giunta l’ora di mangiarli. E si rinnova la visione.

Amedeo Trezza

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